Fiorenzo Sorgi

Classe 1954, laziale di Contigliano, dove è titolare di un apprezzatissimo ristorante, pistard nei primi Anni Sessanta. 

«Sotto l’aspetto atletico Franco ha avuto una costanza che ad altri è mancata. La sua vita sportiva non è stata semplice, a cominciare dalla necessità di emigrare da giovane: parlo del suo viaggio a Torino dove ha comunque trovato più spazio e comprensione, e quindi una volta affermato è rientrato a Roma fino alla fine della carriera. Ci siamo conosciuti nel 1960-61, lui iniziava, io avevo cominciato da un anno. Facendo tutt’e due la velocità, ci trovavamo spesso di fronte: settimanalmente si facevano le riunioni, a metà settimana a Roma o nei fine settimana anche fuori città, Torino, Mantova, Miolano, Bologna, Rimini, Firenze, Napoli. Ma i suoi migliori risultati li ottenne nella maturità: io smisi molto presto, rimasi in pista soltanto cinque anni, ma dopo ho continuato a seguire i suoi risultati attraverso i giornali. E lui, con la maturità fisica, con una maggiore consapevolezza dei suoi mezzi, con una preparazione sempre più specifica, personalizzata – all’epoca era tutto collegiale: ciò che valeva per uno valeva per tutto – è arrivato molto avanti. 

Come amico, c’è poco da dire: è un pezzo di pane, è un buono, forse ha acquisito solo con il tempo la cattiveria agonistica, a furia di schiaffi ha cominciato a darli anche lui. C’era un bel lotto di atleti, a quel tempo: per emergere ci volevano possibilità economiche e molta costanza, a Roma non era certo facile farsi largo. Poi arrivò il Centro Sportivo Forestale e le cose cambiarono: ma prima le società facevano ciclismo soltanto per allargare l’attività, parlo di Roma e Lazio, mentre un po’ più di attenzione la riservava la Libertas. E c’erano anche squadre che speculavano molto sulle gare, con ritorni economici anche importanti: ma la sostanza è che spesso i corridori faticavano anche a farsi dare la bicicletta. 

Lui entrò in Forestale, e io facevo l’ultimo anno, prima di mollare, per ragioni che non erano soltanto sportive. C’era anche molta politica, e l’ambiente non mi piaceva più: avevo avuto l’idea di tentare da un’altra parte, c’era un italiano in Messico, Luigi Casola, che sosteneva l’attività laggiù, e mi era passata per la testa l’idea di andarmene per aspettare i miei colleghi fino all’Olimpiade del 1968. Ma a casa la situazione non era facile, non c’era più mio padre, e alla fine a me è mancato anche il coraggio. 

Del Zio… mi sembra di vederlo, quando si andava in surplace lui spesso ci si addormentava, lo chiamavamo Sonnecchio, come quello del Corriere dei Piccoli. Indugiava troppo, e spesso perdeva le volate. Lui si impegnava nel surplace, e l’avversario se ne andava. Come sprinter, sia chiaro, era uno dei migliori scattisti. La sua carriera, come quella di tanti altri, avrebbe potuto essere più importante: la nostra estrazione sociale, la mia come la sua, ha avuto il suo peso, e a questo si unisce il fatto che non sempre la società – parlo del periodo prima della Forestale – ti supportava molto, ma si atteneva ai calendari essenziali senza investire sul corridore, e alla fine insomma la carriera si riduceva a una convocazione in Nazionale e a un risultato di prestigio, ma oltre non si andava. E gli stessi titoli italiani alla fine avevano un valore relativo, e ciò che pesava veramente era una vittoria di prestigio a livello di Nazionale. E succedeva che anche atleti di valore valevano accantonati per motivi che prescindevano dai risultati: ricordo il caso di Giacomo Zanetti, più volte tricolore, che era stato escluso da una convocazione perché “non rappresentativo”. 

Attorno a noi, a quell’epoca, mancava anche tutto, compreso il sistema di comunicazione che ruota attorno a un corridore e che può decretarne la fama al di là dei risultati. C’era un dottore, Tarantino, che vedevamo una volta al mese. C’era un signore, Gigi Federici, che ci aiutava, era una specie di allenatore, che aveva cognizioni non certo larghissime: noi andavamo appresso a lui, ci dava una mano, ci consigliava. Era Federici che ci diceva “lascia perdere, la bici non è per te”, a qualcuno diceva: “insisti”, ad altri “lavati…”. Era questo il nostro mondo. Poi arrivò Guido Costa, e le cose cambiarono, anche se so che lui stesso dovesse accettare certe imposizioni federali. Una volta mi confidò: “guarda che dei nomi che propongo, un paio me li cancellano sempre”. E fu proprio una di queste situazioni che mi indussero a mollare, perché ero nel giro della Nazionale con Castello e Valentini, e la Forestale iscrisse un altro ragazzo. Era il 1965, sfumò anche la possibilità di andare al Mondiale. E così essendo anche allievo forestale a Città Ducale, andai al Ministero, mi tolsi la giacca, la consegnai al nostro presidente, il dottor Benvenuti, e detti le dimissioni, dal ciclismo e dalla Forestale».