Pietro Algeri

Pietro Algeri

Bergamasco di Torre de’ Roveri, classe 1950, campione del mondo di inseguimento a squadre nel 1971; nel 1976 ha stabilito il record mondiale dell’ora dietro motori al coperto (69.741 km), più volte tricolore tra mezzofondo e inseguimento. Vincitore di due Sei Giorni, sette volte in Nazionale. Ora direttore sportivo di squadre professionistiche (Del Tongo, Lampre, Mapei, nel 2004 alla Saunier Duval)

«Io ero diciottenne quando sono entrato nel clan dei pistard, e Del Zio fu uno di quelli che mi impressionò di più: da giovani, si guarda sempre ai più grandi, e lui aveva una personalità fortissima. La cosa che mi colpì subito è che lui su strada non si allenasse quasi mai, mentre su pista sapeva fare grandi cose. Poi ho capito che se probabilmente avesse sviluppato di più quel tipo di ciclismo che sarebbe venuto dopo, Francesco con le sue qualità avrebbe avuto una carriera ben più importante. 

«Aveva le sue specialità, tattica, strategia, era impressionante, in bici aveva un’abilità finissima: ma io, ripeto, non lo vedevo mai allenarsi. Ricordo che, eravamo a Varese nel 1969, lui e gli altri velocisti facevano tre-quattro chilometri e tornavano già a casa. E mi dicevano: “sai, i velocisti si devono allenare così”. E io, che facevo lo stradista e l’inseguitore, mi dicevo: “ma è possibile che si allenino così poco? Va bene che devono fare duecento metri di volata…”. Oltre questo, Franco in pista era eccezionale: dopo di lui è venuto il ciclismo dei giapponesi, dei corridori dell’Est, e la velocità è diventata più una disciplina di potenza. Ecco, ricordo che dal Venezuela, 1977, cominciarono ad arrivare altri corridori e il ciclismo cambiò: da quell’anno, insomma, non fu più il ciclismo di Del Zio. Lui invece insegnava e praticava il ciclismo di una volta: la tattica, il surplace, agganciare l’avversario, tenerlo fino a cinquanta metri dall’arrivo, non lasciarlo esprimere; fantasia e cervello pìiù che gambe e potenza. Era molto particolare anche il suo approccio alle gare, lo vedevi che si chiudeva in se stesso, parlava pochissimo, sembrava concentrato. Poi d’improvviso si rivolgeva a me o a qualcun altro e diceva: “ma come farà Morelon a battermi? Lo vedi che ndo’ metto i piedi se rompe er pavimento…”. Aveva questo spirito, questo umorismo involontario: come si fa a dimenticare uno così? Tanti corridori di quel tempo non li ho più visti, non li ricordo nemmeno, mentre lui era diverso da tutti, ha sempre avuto un estro particolare».